Sul palco sono in due, ma potrebbero essercene cento o mille. Insieme, partono traballanti, malate, a volte felici, e si lanciano forse per il meglio, ma probabilmente per il peggio. Contro di loro, un’avversità che possiamo solo intuire ma di cui non sappiamo nulla. Nell’attesa di scoprire di più si cuoce lo spettatore. Eroine, ora invincibili, ora tragicamente vulnerabili, avanzano, resistono, a volte crollano, ma combattono instancabilmente fino a quando la loro forza non si esaurisce. In una traiettoria sinuosa fatta di momenti di vittoria e di debolezza, la speranza e la disillusione si mescolano in ugual misura.
C’est toi qu’on adore è un grido di speranza in cui il corpo esulta per ciò che ha di più caro, la spinta vitale che ci tiene in piedi e se ne frega di tutto il resto. Dove la meta non conta più niente, l’arrivo è solo il miraggio di quando si è partiti. Anche questa coreografia cela al suo interno un fuoco nascosto, qualcosa di più importante e profondo dei minuti conclusivi, qualcosa per cui vale la pena sollevarsi e insistere.